sabato 17 novembre 2012
STIGLIZ O SALIN?
cito:
il grande STIGLIZ risponde
Le politiche d’austerità ci stanno spingendo verso una recessione a doppio minimo [double-dip], ammonisce l’economista statunitense Joseph Stiglitz. Egli si è seduto a un tavolo per discutere con Martin Eiermann del nuovo pensiero economico e dell’influenza del denaro sulla politica.
The European: Quattro anni dopo l’inizio della crisi finanziaria, sei incoraggiato dai modi in cui gli economisti hanno cercato di comprenderla e dai modi in cui tali idee sono state raccolte da chi decide le politiche?
Stiglitz: Consentimi di dividere la materia in un modo leggermente diverso. Gli economisti accademici hanno svolto un grande ruolo nel provocare la crisi. I loro modelli sono stati eccessivamente semplificati, distorti e hanno tralasciato gli aspetti più importanti. Tali modelli carenti hanno poi incoraggiato chi decide le politiche a ritenere che i mercati avrebbero risolto tutti i problemi. Prima della crisi, se fossi stato un economista di vedute ristrette, sarei stato molto lieto di costatare che gli accademici avevano un grande impatto sulla politica. Ma sfortunatamente ciò è stato un male per il mondo. Dopo la crisi si sarebbe sperato che la professione accademica fosse cambiata e che le decisioni politiche fossero cambiate con essa e fossero divenute più scettiche e prudenti. Ci si sarebbe aspettati che, dopo tutte le previsioni sbagliate del passato, la politica avrebbe richiesto alle accademie un ripensamento delle loro teorie. Sono molto deluso, da ogni punto di vista.
The European: Gli economisti hanno costatato le carenze dei propri modelli ma non si sono dati da fare per scartarli o migliorarli?
Stiglitz: Nel mondo accademico quelli che credevano nel libero mercato prima della crisi, oggi continuano a farlo. Alcuni hanno operato una svolta e voglio riconoscere loro il merito di aver detto: “Abbiamo sbagliato. Abbiamo sottostimato questo o quell’aspetto dei nostri modelli.” Ma per la maggior parte la reazione è stata diversa.
I sostenitori del libero mercato non hanno rivisto le proprie convinzioni.
The European: Assumiamo una prospettiva più ampia. Pensi che la crisi avrà un effetto sulle future generazioni di economisti e di decisori della politica, ad esempio modificando il modo in cui sono insegnati i fondamenti dell’economia?
Stiglitz: Penso che il cambiamento stia davvero avendo luogo presso i giovani. I miei giovani studenti, in larga maggioranza, non capiscono che si possa aver creduto ai vecchi modelli. Questo è un bene. Ma d’altro canto, molti di loro dicono che se vuoi essere un economista devi comunque avere a che fare anche con tutti i vecchi tizi che ci credono. E così scelgono di non addentrarsi in questi settori dell’economia. Ma quella che mi ha più deluso è stata la politica statunitense.
Ben Bernanke tiene un discorso e dice qualcosa del genere “non c’è stato nulla di sbagliato nella teoria economica, i problemi sono nati in alcuni dettagli dell’attuazione”. In realtà c’è stato un mucchio di cose sbagliate nella teoria economica e nel quadro politico di fondo che è stato derivato dalla teoria. Se uno pensa che non ci sia stato nulla di sbagliato, non chiederà nuovi modelli. Questa è una grande delusione.
The European: Sembrano esserci state un bel po’ di divergenze tra i consiglieri economici di Obama a proposito del giusto corso d’azione. E in Europa principi economici fondamentali, quali l’assoluta concentrazione sulla crescita del PIL, alla fine sono finiti sotto attacco.
Stiglitz: Alcuni attori della politica statunitense hanno riconosciuto il pericolo del “troppo grande per fallire”, ma sono una minoranza. In Europa le cose vanno leggermente meglio dal punto di visto retorico. Economisti influenti, come Derek Turner e Mervyn King, hanno riconosciuto che qualcosa è sbagliato. La Commissione Vickers ha riesaminato attentamente l’economia politica. Non abbiamo nulla di simile negli Stati Uniti. In Germania e in Francia sono sul tavolo la tassa sulle transazioni finanziarie e i limiti ai compensi dei dirigenti. Sarkozy afferma che il capitalismo non ha funzionato, la Merkel afferma che siamo stati salvati dal modello sociale europeo e entrambi sono politici conservatori! I banchieri continuano a non capirlo, il che spiega perché vediamo tuttora il capo della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, sostenere che dobbiamo rinunciare al nostro sistema di assistenza sociale nel momento stesso in cui la Merkel afferma l’esatto contrario: che il modello sociale è quello che ci ha tenuto in piedi quando le banche hanno mancato di adempiere ai propri compiti statutari e hanno usato la politica per cambiare la natura delle nostre società.
The European: Che impatto ha avuto la crisi sulle tue convinzioni?
Stiglitz: Non penso che ci siano stati cambiamenti fondamentali nel mio pensiero. La crisi ha rafforzato certe cose che ho detto in precedenza e mi ha dimostrato quanto esse erano importanti. Nel 2003 ho scritto a proposito del rischio di interdipendenza, in cui il crollo di una banca può portare al collasso di altre banche e accrescere la fragilità del sistema bancario. Pensavo fosse importante, ma all’epoca l’idea non è stata raccolta. In quello stesso anno abbiamo assistito a conflitti d’interesse nella finanza. Ora riconosciamo quanto siano importanti tali temi. Ho sostenuto che il problema vero dell’economia monetaria sta nel credito, non nella disponibilità di liquidità. Ora tutti riconoscono che il collasso del sistema del credito ha messo a terra le banche. Dunque la crisi ha concretamente confermato e rafforzato diversi filoni della teoria che io avevo esplorato in precedenza. Un argomento che ora considero molto più importante di quanto lo ritenessi prima è la questione dell’aggiustamento e del ruolo di sistemi di rapporti di cambio, come l’Euro, nel prevenire gli aggiustamenti economici. Un tema correlato è il collegamento tra gli aggiustamenti strutturali e l’attività macroeconomica. Gli eventi della crisi mi hanno davvero indotto a riflettere più a fondo al riguardo.
The European: La tassa sulle transazioni finanziarie sembra essere morte di una morte politica in Europa. Ora la politica economica in Europa sembra dominata in larga misura dalla logica dell’austerità e dal costringere i paesi europei a diventare più simili alla Germania.
Stiglitz: L’austerità, in sé stessa, sarà quasi certamente disastrosa. Porterà a una recessione a doppio minimo che potrebbe essere molto grave. Probabilmente peggiorerà la crisi europea. Le conseguenze a breve termine saranno molto brutte per l’Europa. Ma il problema più vasto riguarda il “modello tedesco”. Ci sono diversi aspetti di esso – tra i quali il modello sociale – che consentono alla Germania di superare una caduta molto forte del PIL offrendo alti livelli di protezione sociale. Il modello tedesco di addestramento al lavoro è anch’esso molto riuscito. Ma ci sono altre caratteristiche che non sono così buone. La Germania è un’economia esportatrice, ma ciò non può valere per tutti i paesi. Se alcuni paesi hanno dei surplus di esportazioni, costringono altri paesi ad avere dei deficit di esportazioni. La Germania ha intrapreso una politica che altri paesi non possono imitare e ha cercato di imporla all’Europa in un modo che contribuisce ai problemi europei. Il fatto che alcuni aspetti del modello tedesco siano buoni non significa che tutti gli aspetti possano essere applicati a tutta l’Europa.
The European: E non significa che la crescita economica abbia soddisfatto il criterio dell’equità sociale.
Stiglitz: Sì, e dunque c’è un’altra cosa di cui dobbiamo tener conto. Cosa sta succedendo alla maggior parte dei cittadini di un paese? Se si guarda agli Stati Uniti bisogno ammettere che abbiamo fallito. La maggior parte degli statunitensi sta oggi peggio di come stava quindici anni fa. Un lavoratore a tempo pieno negli Stati Uniti sta peggio di come stava 44 anni fa. E’ sbalorditivo: mezzo secolo di stagnazione. Il sistema economico non mantiene le promesse. Non importa che alcune persone al vertice si avvantaggino in misura straordinaria; quando la maggioranza dei cittadini non sta meglio il sistema economico non funziona. Ci si deve anche chiedere se abbia funzionato il sistema tedesco. Non ho studiato tutti i dati, ma la mia impressione è negativa.
The European: Cosa dici a qualcuno che ragiona così: “Il cambiamento demografico alla fine dell’era industriale ha reso lo stato assistenziale finanziariamente insostenibile. Non possiamo aspettarci di ridurre il nostro debito senza ridurre fondamentalmente i costi dell’assistenza nel lungo termine” ?
Stiglitz: E’ un’assurdità. La questione della protezione sociale non ha nulla a che fare con la struttura della produzione. Ha a che fare con la coesione o la solidarietà sociali. E’ per questo che io sono anche molto critico della tesi di Draghi alla Banca Centrale Europea sul fatto che la protezione sociale deve essere demolita. Non ci sono basi a sostegno di una tesi simile. I paesi che vanno molto bene in Europa sono i paesi scandinavi. La Danimarca è diversa dalla Svezia, la Svezia è diversa dalla Norvegia, ma hanno tutte una protezione sociale forte e stanno tutte crescendo. La tesi che la risposta alla crisi attuale deve essere una riduzione della protezione sociale è davvero una tesi dell’1% per dire: “Dobbiamo agguantare una fetta più grande della torta.” Ma la maggioranza della gente non beneficia della torta economica, il sistema è un fallimento. Non voglio più parlare del PIL, voglio parlare di quel che succede alla maggior parte dei cittadini.
The European: La sinistra politica è stata capace di articolare questa critica?
Stiglitz: Paul Krugman è stato molto duro nell’articolare la critica delle tesi dell’austerità. L’attacco più forte è stato compiuto, ma non sono sicuro che sia stato ascoltato appieno. La questione critica in questo momento è come valutare i sistemi economici. Non è stata ancora articolata completamente ma penso che al riguardo vinceremo. Persino la Destra sta cominciando a dirsi d’accordo sul fatto che il PIL non è una buona misura del progresso economico. La nozione del sussidio alla maggior parte dei cittadini è praticamente una stupidaggine.
The European: A me pare che molto del dibattito verta ancora su misurazioni statistiche; se non misuriamo il PIL, misuriamo qualcos’altro, come la felicità o la differenza di reddito. Ma c’è un elemento in queste discussioni che non può essere tradotto in termini numerici, qualcosa riguardo ai valori che implicitamente accogliamo nel nostro sistema economico?
Stiglitz: Alla lunga dovremmo avere queste discussioni etiche. Ma io sto cominciando da una base molto più ristretta. Sappiamo che il reddito non riflette molte cose che ci stanno a cuore. Ma anche con un indicatore imperfetto come il reddito, dovremmo curarci di quello che succede alla maggior parte dei cittadini. E’ bello che Bill Gates se la passi bene. Ma se tutto il denaro andasse a Bill Gates, il sistema non potrebbe essere considerato efficace.
The European: Se la Sinistra politica non è stata in grado di articolare a fondo tale idea, la società civile è riuscita a colmare il vuoto?
Stiglitz: Sì, il movimento Occupy è riuscito molto bene a portare queste idee in prima linea nel dibattito politico. Ho scritto su articolo su Vanity Fair nel 2011 – “Dell’1%, ad opera dell’1% e a per l’1%” – che davvero toccato corde profonde in molte persone perché parlava delle nostre preoccupazioni. Proteste come quelle di Occupy Wall Street riescono soltanto quando raccolgono queste preoccupazioni condivise. C’è stato un articolo di giornale che ha descritto le dure tattiche della polizia ad Oakland. Sono state intervistate molte persone, compresi ufficiali di polizia, che hanno detto: “Sono d’accordo con i dimostranti”. Se si chiede del messaggio, la reazione predominante è stata di sostegno, e la questione grossa è stata che il movimento Occupy non è stato efficace abbastanza nel far circolare tale messaggio.
The European: Come passiamo dal parlare della disuguaglianza economica al cambiamento tangibile? Come hai detto in precedenza, il riconoscimento teorico dei problemi economici spesso non è stato tradotto in politica.
Stiglitz: Se la mia previsione a proposito delle conseguenze dell’austerità è corretta, allora assisteremo a un’altra tornata di movimenti di protesta. Abbiamo avuto una crisi nel 2008. Siamo ora nel quinto anno della crisi e non l’abbiamo risolta. Non c’è neppure una luce in fondo al tunnel. Quando arriveremo a tale finale, il dibattito cambierà.
The European: La situazione deve diventare davvero brutta prima di migliorare?
Stiglitz: Temo di sì.
The European: Hai recentemente scritto del “decadimento irreversibile” del Midwest statunitense. Questa crisi è un segnale che gli USA hanno iniziato un declino economico irreversibile anche se continuiamo a considerare il paese come un protagonista politico potente?
Stiglitz: Siamo di fronte a una transizione molto difficile da un’economia manifatturiera a un’economia di servizi. Non siamo riusciti a gestire tale transizione in modo dolce. Se non correggiamo tale errore, pagheremo un prezzo molto alto. Già ora il cittadino statunitense medio soffre per la transizione fallita. La mia preoccupazione è che abbiamo messo in moto un’economia negativa e una politica negativa. Molta della disuguaglianza statunitense è causata dalla ricerca della rendita: monopoli, spesa militare, approvvigionamenti, industrie estrattive, farmaci. Abbiamo alcuni settori economici che vanno molto bene, ma abbiamo anche una quantità di parassiti. La prospettiva che può dare speranza è che l’economia possa crescere se ci liberiamo dei parassiti e ci concentriamo sui settori produttivi. Ma in ogni patologia c’è sempre il rischio che i parassiti divorino la parti sane del corpo. La giuria deve ancora pronunciarsi al riguardo.
The European: Abbiamo almeno compreso la malattia quanto basta per prescrivere la terapia corretta? Specialmente a proposito delle scelte politiche e della crisi dell’Euro, sembrano esserci un mucchio di sparate a casaccio.
Stiglitz: Penso che il problema non sia la mancanza di comprensione da parte degli studiosi spassionati di scienze sociali. Conosciamo il dilemma di fondo e sappiamo qual è l’effetto dei contributi alle campagne elettorali sui legislatori. Siamo così di fronte a un circolo vizioso: poiché il denaro conta in politica, ciò porta a risultati in cui il denaro conta nella società, il che accresce il ruolo del denaro nella politica. Ci sono sempre più brogli e delusioni quanto alla politica parlamentare.
The European: La politica è diventata troppo concentrata sui risultati e non è abbastanza sensibile ai processi che portano a tali risultati? Le fondamenta della democrazia sembrano dipendere, per la partecipazione, dalle strade, non dall’efficacia di particolari politiche.
Stiglitz: Mettiamola così: alcuni criticano affermando che siamo divenuti troppo concentrati sulla disuguaglianza e non interessati abbastanza alle opportunità. Ma negli Stati Uniti siamo anche il paese con la maggiore disuguaglianza di opportunità. La maggior parte degli statunitensi capisce che processi politici truffaldini producono risultati truffaldini. Ma non sappiamo come fare irruzione in tale sistema. La nostra Corte Suprema è stata nominata da interessi finanziari e – non sorprendentemente – ha concluso che gli interessi dei finanziari possono avere un’influenza illimitata sulla politica. Nel breve termine stiamo esacerbando l’influenza del denaro, con conseguenze negative per l’economia e per la società.
The European: Dove è radicato il cambiamento? Nel parlamento? Nel mondo accademico? Nelle strade?
Stiglitz: Guarda nelle strade e anche un po’ nel mondo accademico. Quando dico che la tendenza principale della professione economica mi ha deluso, devo precisare tale dichiarazione. Ci sono stati gruppi che hanno portato avanti un nuovo pensiero economico e hanno sfidato i vecchi modelli.
The European: Hai scritto che la sfida sta nel rispondere alle idee cattive non con il rifiuto bensì con idee migliori. Dove sta la leva più lunga e più forte per introdurre il nuovo pensiero economico nel regno della politica?
Stiglitz: La diagnosi è che la politica è alla radice del problema: è lì che vengono stabilite le regole del gioco, è lì che si decide su politiche che favoriscono i ricchi e che hanno consentito al settore finanziario di ammassare un vasto potere economico e politico. Il primo passo deve essere una riforma politica: cambiare le leggi sul finanziamento delle elezioni. Rendere più facile alla gente votare; in Australia il voto è addirittura obbligatorio. Affrontare il problema della manipolazione dei collegi. Manipolare i collegi fa sì che il tuo voto non conti. Se non conta, stai lasciando agli interessi finanziari la promozione della propria agenda. Intervenire sull’ostruzionismo che è passato dall’essere un tattica parlamentare scarsamente utilizzata a diventare una caratteristica ordinaria della politica. Priva gli statunitensi del potere. Anche se disponi del voto della maggioranza, non riesci a vincere.
The European: Ci aspettano sei mesi di campagna elettorale. Il ruolo del denaro è stato abbracciato da entrambi i partiti. La riforma del finanziamento delle campagne elettorali sembra piuttosto improbabile.
Stiglitz: Persino i Repubblicani sono diventati più consapevoli del potere del denaro constatando come esso ha influenzato e distorto le primarie. I risultati non sono quelli che la dirigenza del Partito Repubblicano aveva sperato. Il disastro sta diventando chiaro, ma ciò non porterà a rimedi immediati. Chi sarà eletto dipenderà da quel denaro. Ci vorrà un terzo partito forte o una forte società civile per fare qualcosa al riguardo.
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Posted 4th October by MR .Turnaround- Giorgio Lagana'
rispondo:
Si legga Pascal Salin, guardi il sito, e ricito questa intervista:
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PASCAL SALIN: L'EVASIONE FISCALE NON E' IMMORALE (intervista esclusiva)
Published by leonardofaccoeditore on 4 luglio 2012 | 11 Responses
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DI GIOVANNI BIRINDELLI
Riporto la sintesi di un’intervista al Professor Pascal Salin, economista francese della Scuola Austriaca. Il video integrale dell’intervista, in inglese, può essere trovato QUI.
Origine della crisi. La crisi è stata prodotta dal fatto che per molto tempo i governi europei, e in particolare quelli dei paesi oggi maggiormente esposti (Grecia, Spagna, Italia, Portogallo, Irlanda e, aggiunge il Professor Salin, Francia) hanno speso molto di più di quello che potevano permettersi. La crisi è adesso peggiorata per due ragioni. In primo luogo, la recessione economica ha ridotto le entrate fiscali. In secondo luogo, molti governi, adottando politiche keynesiane, hanno reagito alla crisi spendendo di più, non di meno: in altre parole, essi hanno reagito al problema aumentando il ricorso all’interventismo economico che ha creato il problema.
È giusto parlare di “crisi dell’euro”? Quella che viene comunemente chiamata “crisi dell’euro” non è quindi una crisi dell’euro, ma piuttosto una crisi dei debiti pubblici e quindi dei governi che li hanno prodotti. Non solo, ma “in linea di principio, non c’è nessuna ragione per cui questa crisi dei debiti pubblici sia collegata all’euro”. Salin fa l’esempio degli Stati Uniti (che però sono, a differenza dell’Europa, un unico paese, per quanto federale): “quando c’è un problema in uno stato americano (come l’anno scorso è accaduto per esempio nello stato del Minnesota che non è stato capace di rimborsare il proprio debito) nessuno parla di un problema del dollaro. Perché allora, quando c’è una crisi prodotta dal fatto che alcuni paesi come la Grecia, l’Italia, la Francia e così via hanno un debito pubblico insostenibile, generalmente si dice che questa è una crisi dell’euro?” La ragione per Salin è puramente politica: questa situazione di crisi dei debiti pubblici di alcuni paesi viene vista come un pretesto per rinforzare il processo di centralizzazione politica ed economica di cui l’euro era uno dei primi passi.
Se un paese in crisi ritornasse alla valuta nazionale e la svalutasse, questa sarebbe una soluzione al problema? Nel lungo periodo no in quanto la svalutazione non consentirebbe di correggere la radice del problema, ovvero le distorsioni del mercato prodotte dall’interventismo economico dello stato (Salin spiega la teoria del ciclo economico della Scuola Austriaca, la quale, per quanto trascurata dall’usuale contrapposizione fra keynesiani e monetaristi, a suo parere “è l’unica scuola di pensiero in grado di dare una spiegazione soddisfacente di cosa sia accaduto”). Per quanto corretta nell’esito, la previsione dei monetaristi, e di Friedman in particolare, secondo cui l’unione monetaria sarebbe entrata in crisi, era fondata secondo Salin su una teoria contraddetta dall’esperienza storica. La teoria è quella secondo la quale l’unione monetaria fra paesi in situazioni economiche diverse (oppure inizialmente in situazioni economiche simili ma poi, in seguito a crisi asimmetriche, venutisi a trovare in situazioni economiche diverse) non può funzionare in quanto toglierebbe ai paesi in crisi la possibilità di svalutare e quindi di fare ciò che fa normalmente un’azienda in crisi: abbassare i prezzi dei suoi prodotti o servizi. Questa teoria secondo Salin è contraddetta da vari esempi storici (oltre che dalla teoria della Scuola Austriaca): in primo luogo quello degli Stati Uniti ma poi anche quello della “zona del franco” che univa paesi diversissimi fra loro come la Francia e alcuni paesi africani. Quando le crisi economiche sono prodotte dall’interventismo economico nel lungo periodo la svalutazione non è un rimedio. L’unico possibile rimedio è lasciare che il mercato libero faccia il suo corso: solo così le distorsioni prodotte dai governi e dalle loro politiche keynesiane potranno essere corrette e la crisi potrà rientrare.
Eurobond & Co.: potrebbero essere una soluzione? No: nessuna delle misure proposte o attuate a livello europeo (come i cosiddetti ‘eurobond’, i ‘project bond’, la ricapitalizzazione della European Investment Bank, l’unione bancaria, ecc.) potrebbe essere una soluzione: “queste cosiddette ‘soluzioni europee’ sarebbero una soluzione al desiderio di centralizzazione dei politici” e a quello di deresponsabilizzazione dei governi nazionali in relazione al debito da loro creato “ma non sarebbero una soluzione ai problemi economici” perché, come detto prima, esse insistono su ciò che ha prodotto la crisi: l’interventismo economico e la centralizzazione delle decisioni e dell’uso della conoscenza che questo presuppone.
Quali politiche dovrebbero essere adottate da parte dei governi? Salin sorride, “sono tentato di rispondere nessuna politica” in quanto l’interventismo economico, e quindi le politiche monetarie e quelle fiscali, stanno all’origine della crisi finanziaria e di quella economica, rispettivamente: “queste politiche hanno impedito al mercato di fare il suo lavoro. Per ristabilire l’equilibrio dobbiamo avere non più interventismo, ma meno. Quindi quanto meno sarebbe necessario non far nulla. Ma sarebbe ancora meglio se gli stati decidessero di ridurre la spesa pubblica e, per quanto paradossale possa sembrare a prima vista, di ridurre le tasse… Lo so che per i governi è difficile accettare questo fatto, ma essi stanno facendo esattamente l’opposto: stanno infatti aumentando le tasse, … la quantità di moneta, … le regolamentazioni”. Solo il mercato, se lasciato lavorare, può risolvere la crisi economica.
Fra la competizione monetaria di Hayek (in ogni paese, per esempio europeo, ciascuno può usare la moneta che vuole fra le tante monete in competizione fra loro le quali sarebbero anche, o preferibilmente solo, emesse da soggetti privati) e il gold standard puro di Mises, cosa preferisce? “La competizione è sempre una buona cosa” in quanto incentiva i competitors ad offrire il prodotto migliore. Ciò che rende una moneta migliore di un’altra è la sua capacità di mantenere il potere d’acquisto nel tempo e perfino di aumentarlo. Il fatto che oggi a emettere moneta siano le banche centrali e che gli stati impongano l’uso di questa moneta di stato ai cittadini mediante il corso forzoso, crea la possibilità e l’incentivo perché la quantità di moneta sia aumentata e quindi perché vi sia inflazione. In una situazione di competizione monetaria, viceversa, ciascuna persona, sotto la sua responsabilità, sarebbe libera di scegliere la moneta che lei ritiene essere quella migliore e cioè quella che a suo parere mantiene meglio il potere d’acquisto o addirittura che lo aumenta. Quindi in una situazione di competizione monetaria non ci sarebbe inflazione ma stabilità dei prezzi o addirittura una crescita economica accompagnata da riduzione dei prezzi. “L’unica vera soluzione di lungo periodo alla crisi finanziaria è la competizione monetaria”. La competizione monetaria è superiore al gold standard perché il secondo non è competitivo: potrebbe essere che la moneta migliore sia quella basata sul gold standard (purché sia un gold standard privato, in cui la garanzia della corrispondenza fra oro e moneta è data da soggetti privati, non dalle banche centrali, così che essi, a differenza di queste ultime, non abbiano la possibilità di svalutare) ma non lo possiamo sapere in anticipo. La competizione monetaria (intendendo la competizione come processo di scoperta – come lo è la sperimentazione nella scienza (Hayek) – e non come situazione corrispondente alla cosiddetta concorrenza perfetta) ci aiuterebbe a scoprirlo.
Quale è la sua opinione sul programma economico del nuovo Presidente della Repubblica francese, François Hollande? “Penso che il suo programma economico sia molto pericoloso” in quanto keynesiano. In teoria ha l’obiettivo di ridurre il debito ma, anche se ancora non sappiamo i dettagli, lo vuole fare principalmente con l’aumento delle tasse, il che non solo non risolve i problemi ma li peggiora. “Durante la campagna elettorale ha proposto di aumentare il livello di tassazione dei redditi più alti al 75%, il che nei fatti con i contributi e le altre tasse si traduce in circa il 100%. Il che è veramente folle”. Inoltre ha promesso di aumentare la patrimoniale e altre tasse. Allo stesso tempo, il suo programma prevede un aumento della spesa pubblica, per esempio l’aumento del numero degli insegnanti nelle scuole pubbliche e trasferimenti alle famiglie. Il risultato di questo programma interventista sarà maggiore debito pubblico e maggiori regolamentazioni: esattamente l’opposto di ciò che sarebbe necessario per la crescita.
Mario Monti ha affermato che intende rilanciare la crescita attraverso spesa pubblica in “investimenti pubblici veri e genuini”; il suo governo ha varato una ‘riforma’ del mercato del lavoro che continua a rendere estremamente difficile e costoso (quando non impossibile) ai datori di lavoro di licenziare i lavoratori; obbligato dalla crisi economica, finanziaria e dei debiti pubblici a scegliere fra ridurre lo stato e aumentare le tasse ha scelto in gran parte la seconda soluzione. Sarebbe corretto considerare Monti un liberale? Qui devo ammettere una certa sorpresa, infatti il Professor Salin, pur riconoscendo che ce ne è di strada da fare, ha riconosciuto che, anche se a piccoli passi, Monti sta andando “nella giusta direzione (nella direzione liberale)”, e fra gli esempi cita proprio il mercato del lavoro: “mi sembra infatti che ci siano state delle leggere modifiche alla legislazione del lavoro e in altre regolamentazioni. … Devo dire che preferisco questo a quello che abbiamo in Francia, in cui è chiaro che stiamo andando nella direzione opposta”. Lo guardo un po’ confuso: gli ricordo che la ‘riforma’ del lavoro varata dal governo Monti (che già nella sua prima versione rendeva estremamente difficile e costoso licenziare una persona) era stata talmente annacquata che il Wall Street Journal, un giorno dopo aver elogiato Monti, ha dovuto auto-censurarsi e fare un errata corrige. Salin ammette che in effetti non sapeva delle due versioni della proposta e che non conosce i dettagli delle manovre del governo Monti. Riconosce che quelli fatti da Monti sono sicuramente dei piccoli cambiamenti e che l’Italia è ancora un paese illiberale. E aggiunge che “se Monti decidesse di ricorrere a politiche keynesiane questo sicuramente non sarebbe liberale”: ma questo è appunto esattamente quello che pare Monti abbia intenzione di fare, in quanto ciò che distingue le politiche keynesiane è l’idea di produrre crescita tramite spesa pubblica, anche in investimenti pubblici ‘veri e genuini’.
L’evasione fiscale è immorale? Altra sorpresa dall’autore di Liberalismo e di La Tirannia Fiscale. In sintesi, egli afferma che da un lato l’evasione fiscale non è immorale in quanto è una forma di resistenza contro una coercizione che, per il modo in cui è imposta e per la sua quantità, è illegittima. In altre parole, è una forma di “autodifesa contro un attacco da parte dello stato”. Dall’altro lato, tuttavia, pur riconoscendo che l’evasione fiscale è un incentivo al governo ad abbassare le tasse, Salin afferma che essa è moralmente eccepibile in quanto scarica un peso maggiore di tasse, e cioè di “schiavitù”, su coloro che non possono evadere. Quindi “io credo che non ci sia una singola risposta a questa domanda … Ci sono molti casi in cui a un problema morale c’è una risposta chiara e univoca. Io non credo che questo sia il caso per l’evasione fiscale”.
Obiezione: immaginiamo che ci sia un rapitore che abbia sequestrato, riducendole in schiavitù, 10 persone e che una di queste dieci persone riesca a scappare. È chiaro che la fuga di questa persona peggiorerà la situazione delle altre nove persone, ma questo basterebbe per qualificare la fuga di questa persona come immorale? “Si, credo che il suo esempio sia molto buono. Questo significa che fra le due possibili risposte citate, la prima, quella in base alla quale l’evasione fiscale sarebbe morale in quanto sarebbe una forma di legittima fuga dallo schiavismo fiscale, sarebbe la risposta giusta”.
Cosa ne pensa di Ron Paul? Il volto di Salin si illumina. “Ron Paul è molto vicino alla Scuola Austriaca. Ho avuto l’opportunità di incontrarlo al Mises Institute: è fantastico vedere un uomo politico di questa importanza prendere tre giorni di tempo per discutere questioni economiche con accademici da una prospettiva della Scuola Austriaca. Ron Paul davvero conosce la teoria economica della Scuola Austriaca e la difende”. Mi fa vedere un paper che ha appena ricevuto di Ron Paul sulla concorrenza fra monete.
Da un lato il Professor Salin si dice pessimista sullo sviluppo della crisi, soprattutto per come questa viene gestita in Europa. D’altro canto, il sorprendente, seppur insufficiente, successo di Ron Paul alle primarie repubblicane negli Stati Uniti, soprattutto fra le nuove generazioni, gli dà la speranza che un giorno non troppo lontano sia possibile, almeno in qualche paese dell’occidente, invertire la marcia e cominciare il cammino dell’economia di mercato.
Nonché cito i miei precedenti post sul modello matematico economico, che anche un bimbo saprebbe manovrare meglio che gli attuali economisti mondiali.
E qui mi fermo in attesa di riapertura del discorso on demand...
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